sabato 2 aprile 2016

La differenza sulla pelle


Sono sei mesi che abito in Tanzania, quando posso prendo le ferie, salgo su un autobus per scoprire nuovi paesaggi, cercando nuovi incontri e riflessioni. 
É un paese grande, la vegetazione varia rapidamente e molto spesso, agli occhi di chi, seduto per molte ore, viaggia su un autobus che sfreccia (anche pericolosamente) sulle strade strette e non sempre ben asfaltate della Tanzania.

Il paesaggio si srotola continuamente senza interruzioni, a perdita d'occhio, come se non esistesse un inizio ed una fine. Lo sguardo resta cosí libero di perdersi nell'emozione di un'altissima montagna che si innalza verso il cielo dopo una lunga distesa d'oro pianeggiante, colorata a tratti dai variopinti abiti della tribú dei masai che pascolano i propri greggi.
Il colori bruciati delle zone più aride e povere, vengono presto sostituiti dal verde brillante e nuovo della stagione delle piogge, che spesso inonda ma non penetra in una terra così poco solita all'acqua.

L'autobus è il mezzo più economico per spostarsi in un questo paese, è il più comune ed il meno turistico. Il bianco sull'autobus è una rarità, e come tale attira gli sguardi di tutti, dei più grandi e in particolare dei più piccini. Gli sguardi, raramente sono invadenti, in generale sono curiosi, spontanei, sono chiaramente attirati dalla diversità e spesso non possono essere evitati.
Il bianco, muzungu, letteralmente significa colui che erra, in pratica, in questo paese, tra i più turistici in Africa per il gran numero di famosi parchi nazionali, bianco è sinonimo di denaro. Chiaramente è un fenomeno banale, scontato, ma io, finché non mi ci sono trovata, l'avevo previsto, ma forse non lo avevo seriamente valutato.
É spiazzante, quanto riesca ad essere irritante, sentirsi appiccicare perennemente l'appellativo di muzungu, dopo 6 mesi ospite di questo paese, mentre inizio ad entrare nel meccanismo di una lingua così ingarbugliata che è lo swahili, riuscendo perciò a recepire buona parte delle cose che vengono dette e mi vengono rivolte. 
La sensazione che ho addosso perenne è quella di camminare con una sirena accesa in testa o meglio un faro lampeggiante sotto la pelle. Ed è una lotta quotidiana, che inizia dal mattino quando mi sveglio, fino alla sera quando vado a letto, quella di cercare di trasmettere il messaggio che non sono una turista, che non è giusto che debba pagare una cosa il doppio rispetto al suo prezzo regolare, e che il colore della mia pelle non dovrebbe avere voce in capitolo. 

Rabbrividisco quando i bambini mi fermano e muti gesticolano strusciando il pollice sull'indice. Deve essere un gesto universale quello del denaro. Rabbrividisco e penso che qualcuno un giorno, non troppo tempo fa, deve averglieli dati dei soldi, e la pelle di quel qualcuno doveva essere bianca. Rabbrividisco e penso che i bambini neri, a noi bianchi ci piace aiutarli quando sono a “casa loro”, li piangiamo quando muoiono di fame, di morbillo, di aids quando muoiono affogati, ma quando arrivano “a casa nostra” non ci piace più tanto aiutarli.
Mi fermo un attimo e penso che sono mzungu e sono bianca, e che è un dato di fatto.

Dopo tutto i bianchi in tanzania sono quasi tutti turisti, quindi sicuramente molto più ricchi della maggioranza della popolazione tanzana; solo per arrivarci in tanzania, nella migliore delle ipotesi (quindi la piu economica), hanno (abbiamo) speso la cifra che riceve mensilmente come stipendio il dottore dell'ospedale dove lavoro. Intendiamoci non è uno specialista, ma si è pagato gli studi e prende comunque 600.000 scellini tanzaniani al mese (poco meno di 300 euro), e credetemi, il suo è un ottimo stipendio.
Il resto dei bianchi? Preti, suore, volontari, cooperanti, gente che si è arricchita col turismo. 
Un bel teatrino direi, buffo e variegato, un tripudio di ideologie, religioni, credenze, denaro e valori, conditi con un'abbondante dose di contraddizioni, di cui l'essere umano non sa proprio fare a meno.
Io in questo minestrone risiedo precisamente nel mezzo, percepisco le contraddizioni ed il secolare senso di colpa di un mondo bianco che ha schiavizzato, sottomesso, subordinato, sfruttato, violato il mondo altro (e non ha ancora smesso di farlo), perché il colore della propria pelle é simbolo di superiorità e purezza. 

Io sono bianca, loro sono neri, la differenza c'è adesso come c'è sempre stata, il punto sta, come di consuetudine, nel distinguere ció che cambia tra il riconoscere la differenza e l'utilizzare la differenza come motivo di discriminazione.
In tutto ciò, nella mia vita avevo già provato la sensazione di diversità e talvolta discriminazione, perché donna, perché femminista, ma mai mi ero sentita diversa per il colore della mia pelle.

sabato 13 febbraio 2016

Foto da viaggio














Adattamento

Ogni tanto mi sorprendo di quanto mi adatti con facilità, di quanto i miei occhi, probabilmente per spirito di sopravvivenza, sentano la necessità di abituarsi a certi paesaggi, certi gesti, certe scene quotidiane. Ancora non mi è ben chiaro se sia effettivamente una cosa positiva o negativa.
L'occhio si abitua laddove il cuore non può dolere continuamente? E' il forte bisogno di placare le innumerevoli domande che questo mondo stimola? E' la mancanza di risposte che mi impone una contraddittoria ma salvifica pausa rispetto ai grandi perché esistenziali?
Mi sorprende ancora la casa fatta di fango e paglia?
Mi colpiscono le strade sterrate?
Mi sconvolgono le bustarelle alla polizia?
Mi sconvolge il bambino che, più leggero del secchio pieno che porta in testa, cammina scalzo, portando l'acqua a casa?
Come si stabilisce il giusto e lo sbagliato? Come si decide qua? Giusto e sbagliato per chi? Rispetto a cosa?
Probabilmente non spetta a me, e nemmeno a te.
Ma un bambino ha diritto a giocare, a ridere, a studiare, a vivere un'infanzia libera da sfruttamento e violenza, qua come altrove.
Ma una donna qua come nel resto del mondo, ha diritto a ricevere cura ed assistenza, ad essere in salute, ad essere libera dalla violenza e a non morire di parto.
Due sere fa, mi hanno chiamata dall'ospedale, mentre nel mio letto calduccio Morfeo già mi stava abbracciando, c'è un'emergenza e hanno bisogno di una mano. La donna, intorno ai 5 mesi di gravidanza, terzo figlio, era arrivata da poco più di dieci minuti, quando entro in sala parto. Arriva da un villaggio “vicino”, per modo di dire, perché si tratta di quasi 40 minuti di strada sterrata decisamente difficile da percorrere in particolare nel periodo delle grandi piogge, ed ha viaggiato al buio (e buio come sa essere qua, raramente altrove mi è capitato di viverlo) su una moto-taxi, probabilmente il mezzo più conveniente, dovendo trovare un giusto equilibrio tra rapidità e prezzo, ma certamente non il mezzo più sicuro.
La donna si era recata già nel primo livello di “assistenza alla nascita” della zona rurale, il dispensario, dove però appena arrivata avrebbero dovuto trasferirla nel centro più grosso di riferimento, vista la situazione di rischio per madre e feto. Dalle informazioni che sono riuscita a raccogliere, presso il dispensario, il travaglio si era effettivamente avviato e le membrane si erano rotte; subito dopo era stata notata una discreta perdita di sangue che aveva loro suggerito che effettivamente era arrivato il momento di trasferire la donna, a bordo di una moto, al centro di salute ( il nostro), invece di indirizzarla direttamente all'ospedale (fornito di sala operatoria).
Quando entro in sala parto la donna, magrissima e tremante, è stesa sul lettino coperto da un pezzo di stoffa locale, come da copione, le ginocchia piegate, le gambe leggermente aperte e una quantità di sangue difficilmente quantificabile (comunque anomala) tutto intorno al bacino. Il sanguinamento non sembra attivo, ma il sangue abbondante e rosso vivo mi suggerisce solo scenari allarmanti e pericolosi, nell'agitazione del momento mi viene in mente il distacco incompleto di placenta. Le chiedo come sta, dove le fa male, lei mi risponde da per tutto. Il battito del feto è assente, la donna trema in tutta la sua magrezza, il medico mi chiede di fare una visita vaginale, io, probabilmente in modo del tutto incosciente, per cercare di capirci qualcosa, la faccio. Vado cauta, le chiedo scusa, inserisco solo un dito, sfioro un bordo della cervice uterina e sotto stimolazione un fiotto di sangue esce; improvvisamente e per fortuna in modo abbastanza immediato, mi si accende la lampadina e sento sulla punta del dito qualcosa di inconfondibile, ma che mai avevo sentito con una visita: la placenta. Esco subito col dito, mi vergogno di non averci pensato prima, e di aver fatto la visita, mi giro verso il medico e gli dico che dobbiamo chiamare l'autista, e dobbiamo darci una mossa, mentre col terrore addosso cerco di mettere la donna in trendelemburg, con tutto il corpo più in alto rispetto alla testa; non voglio farla alzare, mi sembra che di stimoli meccanici in eccesso ce ne siano già stati a sufficienza, le prendo il polso, è tachicardica, le chiedo come sta, col mio kiswahili maccheronico, ho paura, lei sbadiglia e trema, mentre l'autista tarda un po' ad arrivare. Riusciamo finalmente, dopo minuti davvero interminabili, appena arriva la macchina (un land cruiser vecchiotto), a spostare la donna dal lettino alla barella decisamente più bassa e poco mobile, e dalla barella al “bagagliaio” della macchina adibito ad ambulanza per mezzo di un materasso steso nel lungo vano del fuoristrada. Insistendo riusciamo a sistemarla in una posizione di trendelemburg decisamente eccessiva, ma l'unica possibile, che però secondo le parole della donna, le da un po' di sollievo dal dolore. Raccolgo al volo due flebo di ringer lattato, una è già in corso, salgo in macchina con un'altra infermiera, guardo l'autista e gli suggerisco di schiacciare bene sull'acceleratore. I primi 10 minuti di sterrato, buche, fango, necessari per arrivare alla strada asfaltata sono di puro terrore, cambiamo la flebo, attaccata alla maniglia dove solitamente ci si tiene con la mano, con un guanto legato a doppio nodo, io sto in ginocchio sul sedile davanti, dando le spalle alla strada e fissando la donna e l'infermiera nel retro, a fasi alterne. Sulla strada asfaltata, sembra che le contrazioni rallentino e con voce sottile la donna ammette sommessamente di stare meglio. Mi siedo un po' più composta, ma non molto più tranquilla, mentre l'autista accelera lungo la strada buia verso l'ospedale governativo del distretto. Durante la campagna elettorale a ottobre,
in quell'ospedale non arrivavano nemmeno i guanti sterili e l'ossitocina, e nell'ultimo mese pare che abbiano licenziato un gran numero di persone per negligenza a seguito della morte di una giovane donna. Quello è l'ospedale a cui dobbiamo fare sempre riferimento, è il livello sopra il nostro, non possiamo fare altrimenti.
Mi chiedo dove stia il giusto e lo sbagliato in tutto questo, dove stia il diritto alla salute di questa donna, il diritto ad avere garantita un'assistenza e cura, il diritto a non morire di parto. Mi chiedo cosa sia modificabile e cosa no, mi chiedo fin dove sia lecito lasciar arrivare le divergenze culturali, quanto sia possibile accettare che il fatto che se una donna abita lontano dall'ospedale con la sala operatoria, abbia come conseguenza un aggravamento della sua condizione e un rischio aumentato per la sua vita.
Mi chiedo chi sono io per stabilire qualcosa e per cambiare qualcos'altro.
La donna l'abbiamo lasciata nelle mani di altri operatori sanitari, la macchina doveva tornare indietro, e noi con lei.
Della donna probabilmente non avrò più notizie.

A certe cose non è facile adattarsi, e probabilmente non è giusto farlo.