sabato 13 febbraio 2016
Adattamento
Ogni tanto mi
sorprendo di quanto mi adatti con facilità, di quanto i miei occhi,
probabilmente per spirito di sopravvivenza, sentano la necessità di
abituarsi a certi paesaggi, certi gesti, certe scene quotidiane.
Ancora non mi è ben chiaro se sia effettivamente una cosa positiva o
negativa.
L'occhio si abitua
laddove il cuore non può dolere continuamente? E' il forte bisogno
di placare le innumerevoli domande che questo mondo stimola? E' la
mancanza di risposte che mi impone una contraddittoria ma salvifica
pausa rispetto ai grandi perché esistenziali?
Mi sorprende ancora
la casa fatta di fango e paglia?
Mi colpiscono le
strade sterrate?
Mi sconvolgono le
bustarelle alla polizia?
Mi sconvolge il
bambino che, più leggero del secchio pieno che porta in testa,
cammina scalzo, portando l'acqua a casa?
Come si stabilisce
il giusto e lo sbagliato? Come si decide qua? Giusto e sbagliato per
chi? Rispetto a cosa?
Probabilmente non
spetta a me, e nemmeno a te.
Ma un bambino ha
diritto a giocare, a ridere, a studiare, a vivere un'infanzia libera
da sfruttamento e violenza, qua come altrove.
Ma una donna qua
come nel resto del mondo, ha diritto a ricevere cura ed assistenza,
ad essere in salute, ad essere libera dalla violenza e a non morire
di parto.
Due sere fa, mi
hanno chiamata dall'ospedale, mentre nel mio letto calduccio Morfeo
già mi stava abbracciando, c'è un'emergenza e hanno bisogno di una
mano. La donna, intorno ai 5 mesi di gravidanza, terzo figlio, era
arrivata da poco più di dieci minuti, quando entro in sala parto.
Arriva da un villaggio “vicino”, per modo di dire, perché si
tratta di quasi 40 minuti di strada sterrata decisamente difficile da
percorrere in particolare nel periodo delle grandi piogge, ed ha
viaggiato al buio (e buio come sa essere qua, raramente altrove mi è
capitato di viverlo) su una moto-taxi, probabilmente il mezzo più
conveniente, dovendo trovare un giusto equilibrio tra rapidità e
prezzo, ma certamente non il mezzo più sicuro.
La donna si era
recata già nel primo livello di “assistenza alla nascita” della
zona rurale, il dispensario, dove però appena arrivata avrebbero
dovuto trasferirla nel centro più grosso di riferimento, vista la
situazione di rischio per madre e feto. Dalle informazioni che sono
riuscita a raccogliere, presso il dispensario, il travaglio si era
effettivamente avviato e le membrane si erano rotte; subito dopo era
stata notata una discreta perdita di sangue che aveva loro suggerito
che effettivamente era arrivato il momento di trasferire la donna, a
bordo di una moto, al centro di salute ( il nostro), invece di
indirizzarla direttamente all'ospedale (fornito di sala operatoria).
Quando entro in sala
parto la donna, magrissima e tremante, è stesa sul lettino coperto
da un pezzo di stoffa locale, come da copione, le ginocchia piegate, le
gambe leggermente aperte e una quantità di sangue difficilmente
quantificabile (comunque anomala) tutto intorno al bacino. Il
sanguinamento non sembra attivo, ma il sangue abbondante e rosso vivo
mi suggerisce solo scenari allarmanti e pericolosi, nell'agitazione
del momento mi viene in mente il distacco incompleto di placenta. Le
chiedo come sta, dove le fa male, lei mi risponde da per tutto. Il
battito del feto è assente, la donna trema in tutta la sua magrezza,
il medico mi chiede di fare una visita vaginale, io, probabilmente in
modo del tutto incosciente, per cercare di capirci qualcosa, la
faccio. Vado cauta, le chiedo scusa, inserisco solo un dito, sfioro
un bordo della cervice uterina e sotto stimolazione un fiotto di
sangue esce; improvvisamente e per fortuna in modo abbastanza
immediato, mi si accende la lampadina e sento sulla punta del dito
qualcosa di inconfondibile, ma che mai avevo sentito con una visita:
la placenta. Esco subito col dito, mi vergogno di non averci pensato
prima, e di aver fatto la visita, mi giro verso il medico e gli dico
che dobbiamo chiamare l'autista, e dobbiamo darci una mossa, mentre
col terrore addosso cerco di mettere la donna in trendelemburg, con
tutto il corpo più in alto rispetto alla testa; non voglio farla
alzare, mi sembra che di stimoli meccanici in eccesso ce ne siano già
stati a sufficienza, le prendo il polso, è tachicardica, le chiedo
come sta, col mio kiswahili maccheronico, ho paura, lei sbadiglia e
trema, mentre l'autista tarda un po' ad arrivare. Riusciamo
finalmente, dopo minuti davvero interminabili, appena arriva la
macchina (un land cruiser vecchiotto), a spostare la donna dal
lettino alla barella decisamente più bassa e poco mobile, e dalla
barella al “bagagliaio” della macchina adibito ad ambulanza per
mezzo di un materasso steso nel lungo vano del fuoristrada.
Insistendo riusciamo a sistemarla in una posizione di trendelemburg
decisamente eccessiva, ma l'unica possibile, che però secondo le
parole della donna, le da un po' di sollievo dal dolore. Raccolgo al
volo due flebo di ringer lattato, una è già in corso, salgo in
macchina con un'altra infermiera, guardo l'autista e gli suggerisco
di schiacciare bene sull'acceleratore. I primi 10 minuti di sterrato,
buche, fango, necessari per arrivare alla strada asfaltata sono di
puro terrore, cambiamo la flebo, attaccata alla maniglia dove
solitamente ci si tiene con la mano, con un guanto legato a doppio
nodo, io sto in ginocchio sul sedile davanti, dando le spalle alla
strada e fissando la donna e l'infermiera nel retro, a fasi alterne.
Sulla strada asfaltata, sembra che le contrazioni rallentino e con
voce sottile la donna ammette sommessamente di stare meglio. Mi siedo
un po' più composta, ma non molto più tranquilla, mentre l'autista
accelera lungo la strada buia verso l'ospedale governativo del
distretto. Durante la campagna elettorale a ottobre,
in quell'ospedale
non arrivavano nemmeno i guanti sterili e l'ossitocina, e nell'ultimo
mese pare che abbiano licenziato un gran numero di persone per
negligenza
a seguito della morte di una giovane donna. Quello è
l'ospedale a cui dobbiamo fare sempre riferimento, è il livello
sopra il nostro, non possiamo fare altrimenti.
Mi chiedo dove stia
il giusto e lo sbagliato in tutto questo, dove stia il diritto alla
salute di questa donna, il diritto ad avere garantita un'assistenza e
cura, il diritto a non morire di parto. Mi chiedo cosa sia
modificabile e cosa no, mi chiedo fin dove sia lecito lasciar
arrivare le divergenze culturali, quanto sia possibile accettare che
il fatto che se una donna abita lontano dall'ospedale con la sala
operatoria, abbia come conseguenza un aggravamento della sua
condizione e un rischio aumentato per la sua vita.
Mi chiedo chi sono
io per stabilire qualcosa e per cambiare qualcos'altro.
La donna l'abbiamo
lasciata nelle mani di altri operatori sanitari, la macchina doveva
tornare indietro, e noi con lei.
Della donna
probabilmente non avrò più notizie.
A certe cose non è
facile adattarsi, e probabilmente non è giusto farlo.
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