mercoledì 28 ottobre 2015

Madri in Tanzania

Essere madre in Tanzania, come nel resto del mondo, può voler dire molte cose, e forse in sintesi, di per sé non vuol dire un bel niente.

Rimanere incinta in Tanzania, spesso vuol dire, essere donna e vedere nella gravidanza una via di uscita dal villaggio, un matrimonio che possa portare ricchezza e cambiamento, un uomo, un marito che possa salvarti. 
Spesso in Tanzania si resta incinte molto prima del previsto, perché Dio l'ha voluto probabilmente, perché il disegno divino aveva già stabilito così.

Oggi una madre è arrivata in ospedale perché non sentiva più i movimenti del figlio/a in utero, quella creatura probabilmente verrà al mondo e non respirerà. La madre lo immaginava, lo sentiva, alla sua terza gravidanza, aveva percepito che qualcosa non andava, e piangerà quel corpicino, ma presto resterà nuovamente incinta e nonostante quel respiro non verrà sostituito dal nuovo, saprà che il ciclo della vita avrà ripreso il suo moto.

Oggi una ragazzina, una bambina, con la divisa della scuola rattoppata sulle spalle e sul collo, con i calzettoni bianchi coperti di questa polvere rossa che invade i nostri polmoni quotidianamente, oggi questa bambina è arrivata in ospedale accompagnata da una macchina scassata piena di sue compagne di classe e dall'insegnante, ed il suo test di gravidanza era positivo. 

Lei ha 13 anni. 

Il suo seno spuntava appena sotto la maglia chiara e il suo sguardo non era spaventato, era semplicemente inconsapevole.

L'occhio di chi osserva, pur cercando di astenersi da qualsiasi genere di giudizio, trova del tragico in entrambe le storie. Di storie come queste ce ne sono a migliaia nel mondo, in Europa, in Africa, in Asia, in Sud America. 

Nessun continente si astiene dalla miseria. 

Nessun continente è libero, nessuna donna è libera, nessuna madre è libera, finché anche soltanto una bambina in tutto il mondo subirà una simile violenza.

Nessuno potrà convincermi che in Africa si cresce prima, che la vita spinge le bambine a dimenticare l'infanzia fin troppo presto e le ragazzine a perdere completamente l'adolescenza. 

Probabilmente in tutto questo c'è qualcosa di vero, probabilmente siamo abituati a pensare che l'adolescenza prosegua finché i nostri genitori non si decidano a sbatterci fuori di casa ed a non cacciare più un soldo per un nostro sfizio.

Probabilmente c'è qualcosa di profondamente sbagliato in entrambi i continenti.

La scorsa settimana però è nata una bambina, al buio, nella camera di una casa in muratura in Africa. Anche questa donna è rimasta incinta senza averlo programmato; stavano festeggiando il compleanno di lei e l'hanno concepita, probabilmente un po' sbronzi e sicuramente felici.


Non esiste un modo giusto per essere donna, né uno per essere madre. Sicuramente non è dato saperlo, ma si può lottare, si può cercare, si può trovare, si deve poter scegliere se e come esserlo.  

sabato 17 ottobre 2015

Kiswahili



Cogliere l'immediatezza della lingua swahili è pressappoco come tentare di trovare un ago in un pagliaio, piuttosto complicato, decisamente non immediato, ma non impossibile.

É una lingua che trova le sue radici in un passato remoto che noi europei, neolatini quasi nella totalità, ignoriamo del tutto. Sembra declinarsi come il latino ed il tedesco, ma all'orecchio arriva con sonorità decisamente sconosciute. Non ha niente di noto, se non qualche termine qua e là, che, reduce dell'impronta coloniale, suona inglesissimo, viene africanizzato e così viene trascritto.

É una lingua priva di genere, ma non per questo libera da discriminazioni e sessismo linguistico. All'uomo puoi chiedere se è sposato, alla donna devi chiedere se qualcuno l'ha sposata.

Lo swahili parla di un popolo radicalmente diverso dal nostro, traduce un modo altro di pensare, di riflettere di spiegare il mondo, la vita, i sogni, le speranze.Prima di riuscire realmente a iniziare una conversazione in questa lingua, è necessario prendersi qualche minuto di tempo per salutare la persona che si incontra, con reciproci “salama”, buongiorno, come stai, bene e tu, e a casa, e il lavoro, io molto bene, io anche grazie, prego e via dicendo. Seguendo vari gradi e tonalità più o meno formali o colloquiali, si arriva finalmente a chiedere quello che si ha da chiedere, o se non si ha niente da domandare, si sono comunque spesi diversi minuti dedicandosi all'altro/a, in segno più di rispetto e di cura che non di curiosità o invadenza. E già da quanto si dilatano i saluti nel tempo si inizia a percepire, un approccio culturale differente rispetto al tempo, alle ore, ai minuti.

É una lingua complessa, poco orecchiabile, non credete a chi vi dice che è di rapida comprensione, mente. Ha una musicalità diversa, rispetto a quella a cui siamo abituati; per quanto diverse tra loro le lingue romanze, mantengono comunque una ritmicità più o meno marcata, le parole possono essere più o meno articolate, ma trovi qualcosa di una nell'altra e viceversa.

Lo swahili, ad un primo ascolto, sembra che non abbia pause, sembra impossibile distinguere una parola dall'altra, un interrogativo da un'affermazione, persino il sì ed il no non sono di immediata comprensione.

Poi lentamente, cercando di immergersi in questo mare di “ku”, “ka”, “ki”, “gn”, “mt”, “wa” sillabe ripetute, suoni gutturali, onomatopee, si scoprono i segreti di una lingua che segue i ritmi, che ascolta i bisogni e i pensieri delle sue persone, che scandisce i tempi di un mondo che ha bisogno di più tempo per fare tutte le cose che noi siamo abituati a fare rapidamente, in contemporanea o in modo sbrigativo. 
Ci sarà un motivo se “noi abbiamo gli orologi, ma loro hanno il tempo”; probabilmente perché i minuti scorrono diversamente sull'orologio.

I tempi dello swahili trovano una spiegazione persino nel modo di leggere l'ora; laddove la giornata africana inizia col sorgere del sole, la prima ora del giorno corrisponderà alle nostre sette del mattino. E così via, lancetta per lancetta, le ore si leggono opposte al nostro punto di vista, ma si sa, i punti di vista cambiano e l'idea per cui le ore si contino a partire dal sorgere del sole, giorno dopo giorno, acquista un po' più di senso.

Così come l'ottica cambia radicalmente nel momento in cui si scopre che non si utilizza il verbo lavorare, o meglio proprio non esiste, e si usa invece “fare un lavoro”, e mentre ci si pone delle domande su cosa significhi, ci si accorge che esiste invece un verbo che equivale al nostro “essere felici”. 

Ma se per il momento non cerchiamo troppe risposte e spiegazioni, e lasciamo che questa nuova lingua si faccia spazio nelle nostre strutture mentali ed abitudini linguistiche, permettiamo alla nostra curiosità di cogliere dettagli e peculiarità di un mondo altro che è ancora tutto da scoprire.

Mi piace pensare che una lingua che non prevede l'uso del “mai”, possa essere soltanto un immenso universo di scoperte illuminanti, di nodi che si sciolgono, di meccanismi complessi che si scardinano e che assumono una forma più precisa ed un contorno più nitido, nella misura in cui la completa esclusione del possibile non è nemmeno lontanamente presa in considerazione.